27. set, 2021

IL FISCO LOCALE, QUESTO DIMENTICATO. I CITTADINI STROZZATI E GLI ENTI LOCALI ALLA CANNA DEL GAS di Alessandro Petretto

L’attuale struttura del sistema fiscale italiano risale quasi interamente alla riforma Visentini del 1971, quando si introdusse l’IRPEF, l’attuale IRES e l’IVA fu messa a regime secondo le indicazioni dell’Europa. Si arrivò al traguardo dopo quasi un decennio di studi, proposte e dibattiti in cui si impegnarono i più brillanti studiosi di finanza pubblica italiani e uno stuolo di politici con lo sguardo proiettato al futuro. Tutti arrivarono alla fine come esausti e così non aprirono un capitolo cruciale di riforma, il fisco degli enti decentrati, consegnandoci un sistema di finanza derivata privo di una qualche parvenza di federalismo fiscale. I guai del regime non tardarono a manifestarsi con disavanzi correnti e debiti degli enti, poi ricoperti dallo stato garantendo mutui a lungo termine. A ciò si tentò di rimediare nel 2009 con la legge delega n. 42 che metteva in pratica i canoni del federalismo fiscale della riforma costituzionale del Titolo V; ma il tentativo, per molti aspetti criticabile ma per altri apprezzabile, è stato quasi interamente spazzato via dalla crisi finanziaria 2008-2014, che poneva in cattiva luce il decentramento.
Oggi si prospetta una nuova ampia riforma del sistema fiscale, con una legge delega che sarà varata dal Governo (era promesso entro la fine dì luglio). Il lavoro preparatorio è stato anche stavolta notevole con 61 audizioni presso le Commissioni congiunte di Camera e Senato. Dalle varie proposte e dalla Relazione riassuntiva sembra emergere la stessa dimenticanza della riforma Visentini: l’assenza di un coerente sistema di tassazione delle regioni e dei comuni. Enti che, a seguito della pandemia, si sono scoperti fiscalmente vulnerabili come mai, sussidiati e coperti da uno stato centrale, via via più riluttante.
Le regioni sono state investite dall’emergenza sanitaria in presenza di un sistema di finanziamento rigido, totalmente guidato dall’alto, e uniforme solo sulla carta. I comuni turistici e delle città d’arte hanno visto svuotare quasi interamente, e forse per sempre, basi imponibili che ne avevano decretato nel tempo la solidità finanziaria. Il tutto accompagnato da una diffusa riluttanza a pagare le tasse, non solo da parte della popolazione colpita dalla crisi pandemica; una diffusa lamentazione sociale questa che segnala una preoccupante chiusura nel proprio spazio privato, con poca sensibilità per il bene comune.
Di fronte a fenomeni cosi macroscopici di insufficienza strutturale di entrate e di ridotta autonomia tributaria i nuovi riformatori si preoccupano di eliminare l’IRAP, da tutti avversata perché grava sui fattori produttivi, ma che costituisce una quota fondamentale del finanziamento della sanità, per sostituirla forse con un’addizionale all’IRES, non manovrabile per non ingenerare concorrenza fiscale tra regioni, in pratica un (altro) trasferimento mascherato. Nessuno si preoccupa di attribuire alle regioni un vero tributo proprio (su cui lo stato centrale non possa mettervi le mani) e su cui modellare un sistema perequativo con riferimento ad un’autentica “capacità fiscale”. Quanto al fisco comunale, i più si ingegnano a ridimensionare ancora di più l’IMU, l’ultimo tributo affidabile, per inseguire velleità di patrimoniali (da sinistra) o ulteriori riduzioni del carico fiscale sulla casa (da destra). Oltretutto, l’IMU è un’imposta su una base imponibile molto lontana dai valori patrimoniali di mercato, per cui per soddisfare i presupposti su cui si basa, capacità contributiva e beneficio, la riforma del catasto (ex L.D. 20/2014) non è più rinviabile. Ma quando Draghi ha sollevato questo annoso problema (sollevato anche la dalla Commissione europea da almeno un decennio) si sono levate opposizioni da tutte le forze politiche, che, anche se del tutto consapevoli della distorsione del sistema, hanno bloccato tutto.
Altre entrate stabili provengono ai comuni dall’addizionale all’IRPEF, ma questa, già usata dalle regioni, sarà inevitabilmente coinvolta, forse abolita, dall’ampia riforma delle aliquote del tributo personale sul reddito. Infine, manca nell’ordinamento tributario dei comuni una moderna service-tax, come tributo proprio fondato sul principio del beneficio (la TASI non lo era). 
Come cinquant’anni fa si arriverà faticosamente ad un accordo sul alcuni punti cruciali del sistema tributario, come la struttura di aliquote dell’IRPEF e la tassazione delle imprese, ma temo uno svuotamento del fisco degli enti locali, ai quali saranno promessi trasferimenti compensativi, forse desiderati dagli stessi amministratori perché non responsabilizzanti. La storia dunque sembra ripetersi. Sotto questo profilo si preannuncia un autunno caldissimo che merita di essere seguito con attenzione, perché alla fine sono i cittadini a pagare per gli errori e le dimenticanze dei riformatori.
prof. Alessandro Petretto