6. set, 2021

Il medico, amarcord di Santo Spadafora


Sono un medico. Ho 74 anni e, dunque, da qualche anno in pensione. Ho svolto la maggior parte della mia professione in Ospedale. Come dermatologo. Dico la maggior parte (più o meno una quarantina d'anni) perché "ai miei tempi" conseguita la laurea c'erano molte occasioni di lavoro: dalle convenzioni mutualistiche come medico generico ossia medico di famiglia - termine questo molto caro agli italiani - e nello stesso tempo essere assunto come assistente ospedaliero in un qualsiasi reparto senza essere in possesso di alcuna specializzazione. C’era, però, uno scoglio: ossia bisognava conseguire una idoneità nazionale per assistente ospedaliero, requisito, questo, che ti permetteva di poter partecipare al concorso che un ospedale avrebbe prima o poi bandito per assumere personale medico. Ciò era necessario anche per far carriera ossia bisognava conseguire una idoneità per poter partecipare a concorsi per aiuto e per primariati. Questa era la gerarchia di allora: assistente,aiuto,primario. Tuttavia questo “imbuto” venne abolito per assistenti e aiuti verso la fine degli anni settanta. Mentre quella per i primari a seguito delle direttive europee venne abolita verso la fine degli anni novanta. Non era la specializzazione, quindi, che faceva titolo. Naturalmente se c’era era meglio. Comunque ti saresti fatto le ossa strada facendo, in corsia, sul campo di battaglia, al letto dell'ammalato come mi son sentito dire da più primari o da aiuti anziani che certamente non lesinavano consigli e pacche sulle spalle quando non capivi fino in fondo ciò che stava accadendo nel corpo e/o nella mente di quell'essere umano sofferente in quel letto asettico in una camerata squallida che poteva ospitare fino a otto pazienti. Ecco, era questa promiscuità, questa mancanza di riservatezza che mi colpiva in quei primi mesi di tirocinio. Strutture così fatiscenti e una abitudine, che però non era indifferenza, da parte di tutto il personale sanitario , medici e infermieri, che tuttavia si davano da fare per rendere più sopportabile il ricovero. Già. Giusto(!) un ricovero. C'era allora, ma del resto anche oggi, fame di medici anche perché nascevano - si diceva come funghi- anche nella nostra Calabria gli ospedali zonali. Un medico degli anni settanta insomma poteva fare di tutto e prescrivere di tutto senza limiti : dall'amaro medicinale Giuliani alla Citrosodina (granulare) che si scioglieva in mezzo bicchiere d'acqua e che ti aiutava a digerire. Pagava la Mutua : INAM, ENPAS, ENPADEPT, ENEL e così via rimborsavano di tutto e tutti gli italiani avevano nella propria abitazione una minifarmacia. Non si sa mai. Meglio essere pronti per qualsiasi imprevisto. Tranne che per gli assistiti INAM c’era la possibilità da parte dei pazienti di poter consultare qualsiasi medico purché convenzionato . Alla fine della visita il paziente staccava una specie di assegno che il medico spillava sulla notula per poi, a fine mese, presentarla all’ENTE di competenza per i rimborsi. Più visite facevi più aumentavano gli incassi. Una 500 FIAT costava circa quattrocentosettantamilalire. Bene. Potevi comprartela con l’incasso di un mese. Questo era il potere di acquisto. C'era comunque tra medico di famiglia e paziente un rapporto di fiducia, confidenziale, schietto, spesso di complicità. E c'era tra medico di base e medico ospedaliero stima e collaborazione. Ma è fin troppo chiaro che un sistema così concepito non poteva funzionare per ovvie ragioni. E venne, dunque, il tempo in cui i medici dovettero scegliere se far parte della medicina di base o ospedaliera e i medici ospedalieri optare per un rapporto di lavoro o a tempo pieno o a tempo definito. Ma c'è da chiedersi quale fosse la qualità delle prestazioni, delle attrezzature, della situazione alberghiera e soprattutto i flussi comunicativi tra ospedale e territorio. I medici di base e gli specialisti territoriali facevano da primo filtro. Ma questo sistema poteva reggere finchè ci si accontentava di una medicina basata prevalentemente sulla semeiotica. Intanto la tecnologia faceva passi da giganti. Il nord e il centro Italia si dotavano di piani sanitari che prevedevano, tra le altre cose, l'acquisto di attrezzature in grado di facilitare diagnosi e terapie mirate . In Calabria tutto questo non avveniva. Ricordo il divario che c’era tra nord e sud per quel che riguardava la spesa pro capite . Eppure c'erano proposte, da parte di alcuni sindacati, che sottolineavano l'importanza di dotare gli ospedali di tecnologie adeguate ai tempi oltre alla necessità di istituire nell'Università della Calabria una facoltà di Medicina. Il silenzio o l'incapacità della politica a far "suo" questo continuo appello ha fatto si che cominciarono i primi viaggi della speranza. La conseguenza logica di tutto questo fu che gli ospedali, a parte le urgenze, persero di credibilità e una diagnosi di malattia cronica o bisognevole di studio approfondito veniva affrontata altrove . Da Roma in su. In sintesi nasceva il serpente che si morde la coda. Niente facoltà di medicina, niente ricerca e formazione. L’aggiornamento dei sanitari era demandato alla volontà dei singoli con scarse risorse da assegnare come contributo per la realizzazione di progetti alcuni dei quali molto interessanti. Ne cito uno perché mi riguarda. Alla fine degli anni novanta presentai un progetto che riguardava i tumori cutanei. Soprattutto il melanoma. Questo progetto prevedeva una struttura adeguata, la formazione di un gruppo multidisciplinare costituito da dermatologi, chirurghi plastici, anatomopatologi,medici di medicina nucleare, oncologi, psicologi. Per tale progetto l’ospedale della Annunziata ricevette dalla Unione Europea circa sette miliardi di lire di cui quattro per la realizzazione di strutture e tre per attrezzature. Il progetto della struttura fu affidato all’attuale sindaco di Cosenza architetto Occhiuto. Molte di quelle risorse nel tempo furono stornate per la realizzazione di altri obiettivi. Dopo venti anni tuttavia si portò a termine lo stabile ma di quel progetto iniziale praticamente non rimaneva nulla. Progetti e finanziamenti arrugginiti da una lentezza abituale che finisce per svilire ogni iniziativa. Questo è in parte il sud, questo succede molto spesso in Calabria e se mi fermo un attimo e rifletto mi rendo conto che le cose continuano a navigare su queste rotte. Con un ospedale che rimane chiuso nella sua torre, non certamente d’avorio, anzi, tutt’altro e un territorio a lui scollegato, con una sanità cosi concepita, certamente non avremo mai una ottimizzazione dell’assistenza . C’è da chiedersi se è ancora valido un sistema basato sul medico di base in solitudine, nel suo studio, senza poter essere lui protagonista di primo livello in grado di poter effettivamente fungere da filtro, magari assistito da laboratorio di primo livello. Strutture semplici bene attrezzate, con medici, infermieri e personale di supporto piuttosto che le attuali guardie mediche dove opera un solo medico, senza l’ausilio infermieristico, alcune volte aggredito e maltrattato da pazienti con comportamenti alquanto discutibili. Io vedo un proliferare della medicina privata, che poi tanto privata non è essendo ancorata a convenzioni che non prevedono patologie complesse o accoglienza di urgenze. Non che tali strutture non servano. Non dico questo. Ma dovrebbero assumersi onori e oneri. Spero, infine, che si realizzi nell’Università della Calabria una facoltà di Medicina. Magari coinvolgendo anche gli ospedali. Dove si faccia formazione ad alti livelli, ricerca soprattutto, con mentalità nuove. Bisogna che si mettano da parte le gelosie di mestiere. I giovani devono saper usare ciò che hanno appreso durante i corsi di laurea. Noi ne abbiamo bisogno. Bisogna operare in modo che il cittadino riacquisti fiducia nella sanità calabrese. Solo così, a mio parere, riusciremo a frenare i viaggi della speranza e a ridimensionare il debito che giorno dopo giorno vedo crescere . A dismisura.
Santo Spadafora