25. ago, 2021
Le elezioni e la nuova idea di cittadino di Giovanni Citrigno
In tempi di elezioni, preannunciate da frenetiche circostanze contrassegnate da tripudi di slogan, dibattiti o echi su programmi elettorali, proposte e corse alle candidature, il problema della responsabilità politica di un popolo torna sempre a diffondersi in modo più o meno esplicito.
Ci si può chiedere innanzi tutto il perché di una riflessione filosofica nel mezzo di tale clima: un passo a lato (a lato, non completamente fuori, si intenda) rispetto a quel fragore. Una riflessione filosofica in tal senso, che non voglia cadere in quella che il filosofo francese Jacques Derrida definisce “tentazione di Siracusa”, in riferimento al fantasma della triste esperienza platonica nella città siciliana che torna a ripresentarsi nella storia e che vede il filosofo come “consigliere” privilegiato o lume del politico, in effetti può essere condotta solo facendo un passo a lato.
Una questione che spesso emerge in questo clima di elezioni e che meriterebbe almeno di essere segnalata è senza dubbio quella relativa all’idea di cittadino.
Le questioni che desidero focalizzare però non concernono tanto l’identità del cittadino. Semmai sembra essere più interessante spostare il quesito su un aspetto che dovrebbe riguardare innanzi tutto i giovani, come chi scrive. Ci si può chiedere cosa significhi essere cittadino? Ma anche, cosa significa essere cittadino in Calabria?
Queste sono le domande dalle quali credo occorra ripartire. Una domanda sul significato dell’essere cittadino, ancor prima della sua definizione, è cruciale perché sposta l’attenzione su una responsabilità politica del soggetto che la formula. In altre parole, riflettere sul significato dell’essere cittadino significa porsi in un atteggiamento non già di resistenza, né di resilienza, ma di azione, e questo perché la domanda mette al centro del discorso direttamente le potenzialità del singolo: cosa si può fare? Da qui l’incessante richiesta dei giovani di mettersi in gioco.
Ma questo è solo uno spunto di riflessione. Io proverei ad approcciare la domanda più spinosa, e che non a caso è più facile da evitare. Cosa significa essere cittadini calabresi? Anche in questo caso credo che non si tratti tanto di definire il cittadino, ma comprendere la costellazione nel quale è inserito. Si tratta quindi di definire in qualche modo l’ “idea di Calabria”. Lungi da ogni semplificazione, definirei la Calabria con un termine coniato dal filosofo francese Michel Foucault. La Calabria è un’incarnazione di ciò che Foucault chiama “eterotopia”. Ma cos’è un’eterotopia? L’eterotopia è un luogo marginale, plurale, molteplice, che sfida e fa problema a ogni ordine giustapponendo al suo interno istanze contraddittorie, e ciò lo rende costitutivamente problematico. Sono eterotopie le biblioteche e gli archivi che in file di scaffali conservano secoli di storia. Sono eterotopie i cimiteri in cui il tempo si ferma. Ancora, i cinema, in cui sul telo vengono proiettate immagini che si susseguono, tutte accalcate su una superficie. La Calabria, strutturalmente contraddittoria e problematica, è un’eterotopia. Ma ciò che è singolare è che tali luoghi appaiono dissonanti più a chi non li vive che a chi ne fa esperienza. Ecco forse una risposta: essere cittadini calabresi significa abitare tale interdizione che però è sempre dinamica e non tende a cristallizzarsi, pertanto è più soggetta a cambiamento. L’idea del cittadino è strettamente connessa a un’esperienza: l’esperienza di tale eterotopia. Riconoscere, vivere consapevolmente e contribuire a scuotere questo spazio del cambiamento, della contraddizione e della pluralità, è il nucleo di tale esperienza. Sarebbe interessante lavorare e abitare consapevolmente questa esperienza dell’ “idea di Sud”: l’ “idea di Calabria”. Non è forse azzardato dire che tale concetto possa essere determinante in futuro addirittura nell’ambito della filosofia politica. Quel frenetico clima di elezioni quindi credo apra tale questione sul significato del farsi cittadini calabresi per noi giovani.
Vorrei chiudere questa breve riflessione con un’immagine machiavelliana che possa essere almeno un invito a inaugurare un dibattito plurale intorno alla riscoperta dell’esperienza viva di cittadino. Machiavelli, nel descrivere l’uso della ragione pratica (nel suo caso precisamente politica) ricorre all’esempio del tiro delle frecce da parte degli arcieri. Per centrare l’obiettivo, infatti, l’arciere deve mirare più in alto rispetto a esso e non direttamente al centro. Mi sembra un’immagine semplice ma significativa che, alla luce di ciò che si è detto, può essere letta come un invito non solo a seguire i grandi esempi, ma anche a esporsi e contribuire ognuno a suo modo a un cambiamento decentrando criticamente ogni prospettiva, proprio come quella freccia che fulminea cade sull’obiettivo.
Giovanni Citrigno
Studente di Scienze Filosofiche UiCal